top of page

Diario di una expat

Nuova rubrica di coach for expat
diario di una expat

Inauguro oggi questa rubrica del blog con una parola importante: inclusione. Una parola chiave che torna e tornerà nei miei articoli.


Sono nata nelle Marche ma non ci ha mai vissuto. Ho visitato, per la prima volta, la mia città natale da adulta: una cittadina sul mare, con una lunga spiaggia puntellata da palme.

Ho vissuto in tante città diverse e, anche se piccolina, sapevo che gli amici sarebbero stati compagni di viaggio solo per poco tempo. Non ho sviluppato un senso di attaccamento a nessuna casa e a nessun posto. La mia famiglia non mi ha nemmeno spinta a creare un legame con la loro terra di origine. Alla domanda “da dove vieni?” non sapevo mai cosa rispondere. E’ diventato più facile all’estero perché ho solo bisogno di indicare l’Italia, cioè un territorio più ampio e riconoscibile.


Una delle domande che un expat si sente rivolgere più spesso, dopo il “da dove vieni?” è “quanto tempo resterai?” E ho scoperto che, questa precarietà, è un motivo per cui molte persone scelgono di non stringere amicizia. “Non voglio investire tempo ed energie in un rapporto che, forse, finirà”.

Eppure è la natura di molti rapporti: possono finire per tantissimi altri motivi.


L’ostacolo della lingua, questa apparente instabilità, la provenienza da una cultura diversa, il bagaglio di ciascuno di noi, diventano dei pass di ingresso nella nuova società in cui viviamo.

Se provi a cercare un’immagine legata all’inclusione i risultati saranno cerchi che racchiudono qualcosa, immagini di gruppi di persone di comunità diverse o persone disabili.

L’inclusione riguarda cioè il riuscire a fare parte di un gruppo e riguarda una condizione di chi, da quel cerchio, normalmente viene escluso perché non risponde a quegli standard e a quelle regole.

Riccarda Zezza, scrive che è la "normalizzazione di qualcosa di esterno". Leggere questa frase mi ha risvegliata.

L'immagine è potentissima: l'inclusione sembra aprire uno spazio, ma rimane comunque racchiusa entro un confine. E suggerisce due aspetti fondamentali: il primo è che lo spazio è limitato, il secondo è che chi è già in quello spazio non sia sottoposto a tutti gli aggiustamenti di chi arriva dall’esterno. Il pass d’ingresso già ce l’hanno di default.

Ti chiedo: ti sei mai sentit* fuori da un cerchio? Quali strategie hai adottato per adattarti restando te stess*?

L’inclusione è, per me, più un sentimento: mi sento sicura, sento di far parte, sento di essere vista, sento di poter essere ciò che sono, posso partecipare, esserci.

Ma se il cerchio è piccolo e per entrare devo lasciare dei pezzi di me fuori, mi sentirò ancora sicura, vista e autentica?

L’inclusione dovrebbe permettere alle persone di portare con sé le proprie differenze e peculiarità in un ambiente con le sue regole e abitudini.


La domanda che rimbomba forte è: ma chi è dentro a quel cerchio, se facesse tutti gli sforzi che fa chi si trova fuori, riuscirebbe ad entrare? Il suo pass sarebbe ancora valido?



Comments


bottom of page